Matilde Piazzi
RINASCIMENTO
La persona e il suo luogo
a cura di Eleonora Frattarolo
CUBO Centro Unipol BOlogna
13/10/2017 – 20/01/2018 | 14:30 – 20:00
CONNOTAZIONI E OMOLOGAZIONI
Nella fotografia di Matilde Piazzi
Una giovane donna ci guarda seria e appena velata di malinconia, di tre quarti, il volto accarezzato dall’onda di una capigliatura corta, quasi da bambina. L’oliver’s Wharf, architettura in mattoni, le è accostato come immagine associativa, aprendo e rendendo visibile e scenico uno spazio ipoteticamente afferente alla sua persona. L’edificio le si interfaccia come fosse una proiezione e ricognizione mentale, una scenografia intima eppure pubblica, che appartiene solo al suo sguardo. Cuspidato, il tetto in ardesia grigia, con il colmo lungo il fronte dell’acqua, esibisce frontalmente alla sponda due timpani ugualmente acuti, ciascuno sormontante una teoria di cinque balconi senza aggetto, e si alza solido e arioso, portatore di una quadratura geometrica armonica e finestrata, sacra come una chiesa. Affiora così, in questo esterno, una risultante evocativa e metonimica, un’identificazione all’interno di una geografia psichica che risulta significativa grazie all’immediata relazione estetica che inserisce in un solo perimetro visivo volto ed edificio . È un’ immagine di Rinascimento, ciclo di ritratti di Matilde Piazzi riuniti in mostra, che ritengono in sé i modi della tradizione pittorica moderna, seppure manipolati e sovvrtiti, e della fotografia contemporanea , rappresentando stralci naturalistici o urbanistici accanto a pose fisiognomiche, in un’implicazione liminare, che avviene per sottili analogie formali e spirituali ma anche per cauto procedimento d’indagine, nelle pieghe silenziose di volti, natura, edifici, dove l’inconscio di chi ritrae è complice dell’inconscio di chi è ritratto. Paesaggio nel ritratto; una celebre unità della tradizione, se non fosse che qui il paesaggio non fa da sfondo, ma si è trasferito accanto, ridotto in frammento, di paesaggio, autonomo, e tale da produrre un dittico molto contemporaneo, in cui i due generi tornano a emanare fluidi scambievoli, ma di sapore digitale . E’ il lavoro di Matilde Piazzi, che ancora e sempre memore dell’iconografia della pittura, in contemporanea trattiene gli andamenti di significativi fotografi d’oggi e di ieri: certe dolcezze dei ritratti di Julia Margaret Cameron, il silenzio e la vigilanza tranquilla delle rappresentazioni di Thomas Struth, le pose fintamente ovvie di Rineke Dijstrka. Il risultato sono fotogrammi digitali in bilico sulla soglia del tempo, che per un attimo mi fanno fantasticare, e li guardo come possibili passaporti del futuro, come in un libro di Philip K. Dick, dove l’espressione di un vissuto che va a nutrire l’immensa banca dati del Pianeta è tradotto e proiettato nello spazio di appartenenza. La poetica del nascere e del vivere in un luogo diventa conformità al luogo stesso, in affinità di senso fisiognomica, questo si potrebbe pensare davanti a questi dittici; ma non è così, perché la figura ritratta non ha mai vissuto il frammento di paesaggio che le è accanto; il suo inserimento è frutto della sola scelta del fotografo, che su questo versante apre molteplici scenari d’interpretazione, il primo dei quali ci fa assistere alla compresenza di due ritmi, di due temporalità, una più lenta nell’ispezione operata, all’interno del ritratto, di un volto fermo e l’altra, più mossa e veloce presente nel frammento di veduta come rapporto compiuto e distinto dal primo, perché redatto sulle scene delle dinamiche geologiche continue della natura, o della vita urbana. Eppure tutti i fenomeni, anche quelli naturali, sono costituiti da eventi seriali, ogni evento è in un certo senso una campionatura istantanea rappresentativa del fenomeno di cui è parte integrante. In tal senso vi è un andamento fenomenico nel lavoro di Matilde Piazzi, nelle
sue rinascite in un volto che è contemporaneamente evento rilevato e fenomeno rivelato in termini confrontabili con il fattore ambientale, pervase da un tempo che è istante e insieme storia
innestata in luoghi fotografati per procurare cortocircuiti visivi e psichici. La separazione del genere del ritratto dal motivo paesaggistico, viene così ricomposta in una visione unitaria che s’impossessa dei loro tempi diversi, riattribuendoli, nuovamente, come nel Rinascimento, a una sola opera. Immergersi nelle visioni di Matilde è, quindi, come fare un prelievo, un carotaggio nella roccia, e accertarsi di un ‘esistenza, di un dato di fatto, che usiamo chiamare realtà, non interessandole evidenziare più di tanto le qualità interiori o le identità sociali delle figure ritratte, ma piuttosto una vaghezza di condizioni, tutte ipotizzabili, e perciò forse accessorie, dei suoi protagonisti. C’è la tranquillitas, fondante per lei, ed espressione di una serena visione del soggetto, in una sicurezza che prescinde dall’altro e si afferma sul nostro diritto di guardare. E vi è una sorta di riserbo oggettivo della posa che nulla ha a che vedere con l’espressione del volto. Non c’è nulla da svelare o da coprire. Forse è questo il da farsi, riuscire a guardare le persone senza inviare loro i sussurri odiosi dei nostri drammi interiori. Guardare l’esterno per quello che è, sapendo che c’è un interno, sospendendo il passaggio, la transizione tra le due condizioni. I soggetti di Matilde Piazzi non sono interiorizzati, hanno un’interiorità, ma non ci viene chiesto di sondarla, bensl di guardarla. Nessuna attenzione al gesto, alla postura, nessun atteggiamento o impronta di vestiario, nessuna espressione particolare, ma solo una consapevolezza vitale e propriocettiva.
Non sono collocati in interni e non sono portatori d’interiorizzazioni, tuttavia lo scambio tra terra e uomo è biunivoco e la terra rivestendosi dell’intelligenza e dell’azione umana non è solo uno scenario e un presupposto del suo svolgersi, ma diviene proiezione umana , dopo essere stata per millenni premessa e precondizione dell’uomo, e in quest’ottica influenza la psiche e continua a farlo. Non esistono rapporti tensivi, Terra e uomo sono omologhi, cioè corrispondenti, sembra dirci la Piazzi, c’è uno sguardo interiore dell’uomo sul mondo e c’è uno sguardo del mondo sull’uomo. Entrambi si recepiscono e si scambiano informazioni. I volti sono giustificati da un certo tipo di paesaggio, non sono solo connotazioni, sono anche giustificazioni. come quelle della tabulazione dei programmi di scrittura, perché si attagliano e si corrispondono: sono omologazioni fra due sistemi, e hanno perfino una remota valenza etnologica , quasi museologica, una distribuzione delle genti in cui un’area geografica di pertinenza non reale ma immaginifica e simbolica diviene connotazione riflessiva e di sembiante dei singoli. E in questo tenersi vicendevole di interni ed esterni, in questo convenire di spazi e tempi e compenetrarsi di energie psichiche e materie minerali, vive e si nutre la sospensione poetica di Matilde Piazzi.
Eleonora Frattarolo